Da qualche tempo, nella mia attività di coaching, incontro sempre più ragazzi tra i venti e i venticinque anni. Arrivano con storie diverse, ma con un tratto comune che mi colpisce ogni volta: un desiderio profondo di essere ascoltati. Non solo compresi, ma davvero considerati.
Spesso restano meravigliati del fatto che io li accolga alla pari, interessata e rispettosa, in ascolto profondo, senza considerarli “giovani da correggere” oppure adulti incompleti o eterni bambini; sentono di essere rispettati perché già portatori di senso, di domande vere, di pensiero; attualizzano il timore eterno di chi deve affrontare la vita sulle proprie gambe. Leggo in loro uno stupore che dice molto. Dice quanto, oggi, essere visti e presi sul serio non sia affatto scontato.
Viviamo un tempo in cui adulti stanchi, sovraccarichi, frettolosi, non per mancanza di amore o di responsabilità ma per una fatica diffusa, hanno difficoltà a fermarsi ed essere profondamente in ascolto. Esserci davvero, senza anticipare risposte, senza ridurre la complessità in una formula rapida, senza scivolare subito altrove o usare quell’antipatico tono di chi già sa tutto…
Per crescere, un ragazzo ha bisogno proprio di qualcuno che ci sia con tutto se stesso abbastanza a lungo da non avere paura delle domande; ha bisogno di potersi fidare di chi sa dare opinioni e non consigli, di chi sa che può farcela da solo e che, qualunque scelta operata con responsabilità, dovrà essere rispettata per amore e senza giudizio. Domande sull’identità, sul futuro, sulle scelte, sul senso, sull’innamoramento durante il quale tutto avviene per meravigliosa scoperta. Domande che non chiedono soluzioni immediate, ma di essere affianco qui ed ora, fino alla fine.
È a partire da questi incontri che mi sto convincendo di una cosa: forse, soprattutto nell’adolescenza e nella prima età adulta, ai ragazzi farebbe bene essere affiancati da figure di supporto simili ai vecchi insegnanti delle ripetizioni pomeridiane. Tra loro c’è spesso, alle prime difficoltà scolastiche, un insegnante che fornisce loro supporto per questa o quella materia in cui avvertono difficoltà. Immagino, proprio in questi casi che una scelta oculata da parte delle famiglie potrebbe giovare grandemente alla crescita della fiducia in sé dei nostri ragazzi. Mi riferisco alla individuazione di figure che non si limitino ad “aiutare a studiare”, ma che sappiano motivare, incuriosire, incoraggiare a pensare. Ad apprendere non solo nozioni, ma direzione e consapevolezza delle proprie possibilità.
Immagino una figura attualizzata, a metà tra l’antico mentore e il coach dei nostri tempi. Una presenza competente, preparata, non invadente. Un adulto che non sostituisce la famiglia né la scuola, ma si pone in alleanza. Una terza presenza, capace di abitare quello spazio spesso scoperto tra i ruoli, dove nascono le domande più decisive.
Non si tratta di delegare l’educazione né di aggiungere controllo o pressione e nemmeno di correggere i ragazzi o indirizzarli verso modelli preconfezionati.
Si tratta, piuttosto, di offrire una presenza qualificata che sappia stare nel mezzo, tra scuola e famiglia, in quello spazio delicato in cui un ragazzo prova a capire chi è, cosa desidera, che tipo di adulto vuole diventare. Uno spazio che chiede tempo, ascolto, continuità.
Forse i ragazzi non hanno bisogno di più stimoli, di più prestazioni, di più aspettative. Forse hanno bisogno di adulti più disposti ad affiancarli. Non per guidarli dall’alto, ma per camminare accanto mentre imparano a riconoscere la propria direzione. Forse, i nostri ragazzi hanno bisogno di adulti meno adolescenti e più sicuri di sé nello svolgere quel ruolo in cui tutto si costruisce insieme su un livello assolutamente paritetico.
È una riflessione che nasce dall’ascolto.
E come ogni ascolto autentico, resta aperta.
