L’abbandono

Questa mattina alla fine della mia lezione di yoga, con il corpo un pò affaticato, inizia il momento di rilassamento. La mia cara e bravissima insegnante, mentre mi conduce la sua voce che sembra fatta apposta per allontanare da ciò che è superfluo, mi invita a rilassarmi e mi suggerisce: “Lascia andare i piedi, abbandona i polpacci, le gambe…Abbandona la schiena, abbandona le spalle, il collo, la testa…”

Ma come si fa ad abbandonare la testa, a lasciare andare i piedi o le spalle che sono parte di me?

All’istante, come un flash di cui si accorge anche lei per l’espressione del mio viso, inizio a riflettere su cosa voglia dire “abbandona!”.

Sono presa subito da una dolce suggestione e, nella composizione della parola, scorgo la presenza del “dono”: abban-dono.

Glielo comunico e ad ogni mia osservazione, ne arrivavano tante altre da lei come avviene quando c’è intesa: un fermento che dà origine a un gioco di scoperte. Ci siamo abbandonate alle nostre percezioni, alle emozioni tutte proiettate all’abbandono come un’azione centrata sul dono.

Da una lezione di yoga è nata una magia che mi ha aperto a significati nascosti che forse avevo proprio bisogno di ritrovare o addirittura di scoprire per la prima volta.

L’abbandono come separazione in un significato positivo.

Ho ricordato che “a o ab e l’ablativo” in latino traduce provenienza da un luogo lontano; “ab- dono” come se, ogni volta che abbandono qualcosa, dato che proviene da altra realtà, dovrei mettere in conto di doverla lasciare andare o di rischiare di perderla.

Cerco ancora su Google e trovo un’altra etimologia dal tedesco: abbandono da ab- handen, far cadere dalla mano. Lasciar cadere via da me, lasciare vuota la mia mano facendo cadere ciò che contiene.

Risulta illuminante questo significato di abban-dono nell’antitesi al controllo! È proprio l’approccio opposto.

Nell’abban-dono siamo difronte alla perdita di controllo su qualcosa che viene da altro e ad altro tende come un lascito, un regalo gratuito, una donazione che avviene quando riconosco a ciò che lascio, una vita autonoma. Se penso ai piedi, alle mani che dovrei lasciare andare nel momento del rilassamento è inevitabile attribuirgli un rispetto volto al riconoscimento del loro valore intrinseco.

Rispetto per ciò che è in assoluto.

Immagino per analogia di poter applicare nelle relazioni quotidiane questo riconoscimento di rispetto dovuto al valore in sé …Abbandono alla vita, abbandono all’amore, abbandono alla crescita…

Pensato per i propri figli, ad esempio, è curarli in quanto valore in sé, rispettandone la natura indipendente in tutte le sue sfaccettature ed apprezzandone l’unicità. Non si tratta di lasciare che si arrangi da solo ma il mio amore per lui o per lei è “a mani aperte”, senza stringere costantemente le sue, pur mostrandomi pronte ad intervenire su richiesta o quando la responsabilità me lo chieda. Un genitore pronto, attento, in ascolto, capace di afferrare la mano e abbandonarla quando cessa il pericolo.

Pensato per la coppia, ti abbandono, ti faccio dono del tuo essere te stesso affinché il nostro progetto di amore ti dia la possibilità massima di esprimer tutta la tua magnificenza. Esserci con tutto se stesso dentro e fuori dalla coppia ma senza possesso. Ti ho incontrato, ci siamo ritrovati insieme, sei venuto da lontano perché appartieni alla tua vita ed in essa io ti lascio camminare per farti ritrovare te stesso senza legacci, catene, senso di proprietà.

In una società liquida, veloce, “orizzontale” è davvero forte la tentazione di tenere tutto sotto stretto controllo. Tutto sembra sfuggente, precario, volatile ed è forse il tempo di coniugare in altri modi la nostra capacità di amare.


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